giovedì 7 marzo 2013

Educare alla verità, sfida per la scuola


Educare alla verità, sfida per la scuola

Intervista a Marco Bersanelli, direttore della Scuola di dottorato in fisica, astrofisica e fisoca applicata all’Università degli Studi di Milano


di MARCO LEPORE

«La passione per il bene dei ragazzi e l’a­more per la propria disciplina». Sono queste le qualità principali di un buon insegnante secondo Marco Bersanelli. Ordina­rio di astronomia e astrofisica e direttore della Scuola di dottorato in fisica, astrofisica e fisica applicata all’Università degli Studi di Milano, Bersanelli ha partecipato a due spedizioni scien­tifiche al Polo Sud ed è fra i responsabili scien­tifici della missione spaziale Planck dell’Agen­zia Spaziale Europea, dedicata allo studio del­l’universo primordiale.

Professore, che cosa significa amare la pro­pria disciplina?

Di recente, incontrando i nuovi studenti di fi­sica alla prima lezione del corso di meccanica, mi è venuto da dire così: «Stiamo iniziando un corso di quaranta ore, distribuite in un seme­stre, e potremo ripercorrere un cammino di quattro secoli, diciamo semplificando da Ga­lileo a oggi, quattro secoli di intuizioni, di sco­perte di alcuni dei più grandi geni dell’umanità. In quaranta ore potremo capire, non generica­mente ma in profondità, le leggi fondamenta­li della meccanica, la gravitazione universale di Newton. Pensate che cosa avrebbero dato un Aristotele o un Archimede per poter essere qui con noi». Ecco, credo che la prima necessaria qualità di un insegnante sia quella di sentire la portata di ciò che sta per succedere a quei ra­gazzi attraverso il contenuto e la storia di cui egli stesso è il testimone. Una maestra di pri­ma elementare dovrebbe moltiplicare questa coscienza per mille, perché insegnare a legge­re e a scrivere implica una storia che arriva fi­no agli albori della civiltà. Amare la propria di­sciplina significa sentire la portata dell’avven­tura in cui siamo e in cui invitiamo i nostri ra­gazzi a entrare.


E che cosa vuol dire passione per il bene dei ragazzi? Non è un concetto un po’ vago?
Al contrario, è la cosa più concreta, perché è quella che maggiormente incide sul nostro modo di insegnare. Lo scopo dell’insegna­mento non può limitarsi a far sì che il ragaz­zo esca dalla scuola «sapendo tante cose», ma deve tendere all’educazione, alla formazione della personalità del ragazzo, a far emergere la sua ragione e la sua libertà. Ma ciò non av­viene se non attraverso una immedesimazio­ne con l’umanità di quel ragazzo che hai da­vanti, attraverso un’affezione al suo bene in­tero. Questo struggimento per il bene dell’al­tro viene prima di qualunque tecnica messa in campo, e senza questo rimaniamo deboli come forza educativa.

 
Quali sono oggi le difficoltà principali nei ra­gazzi nei confronti dello studio e della ri­cerca?
Direi che si è indebolita l’idea di futuro.

Si riferisce alla crisi economica, l’incertezza del lavoro per il domani?
Certo, ma forse non è solo questo. Il futuro sembra aver perso un po’ della sua dimensio­ne di possibilità, di imprevedibilità. Ad esem­pio, oggi non esiste più un angolo della terra che sia ignoto. Su Google Earth ogni metro quadrato del pianeta è mappato, e fra pochi an­ni avremo risoluzioni ben maggiori. Questo ha un impatto nell’immaginazione dei giova­ni, e anche di noi meno giovani. Secondo fat­tore: è scomparsa l’esperienza del cielo. La vi­sione della notte stellata, con il suo carico di i­gnoto e di immenso, è estranea all’esperienza dei ragazzi. Quando tengo qualche lezione nel­le scuole, faccio alzare la mano: «Chi ha mai visto la Via Lattea, almeno una volta?». Di an­no in anno il numero di mani che si alzano ten­de a zero. Il senso dell’immensità è quasi as­sente. La terra non ha più segreti, il cielo non si vede. E poi c’è una sfumatura sempre più te­nue tra ciò che è reale e ciò che è virtuale. Tut­to questo conduce a una nuova sfida: o l’im­maginazione è sostenuta da un senso pieno della realtà, della vita, da un gusto dell’impre­visto, oppure rischia di perdersi. «Un imprevi­sto è la sola speranza, ma mi dicono che è u­na stoltezza dirselo», scriveva Montale. Ecco, credo che come educatori dobbiamo percepi­re anzitutto per noi la categoria del possibile, dell’imprevedibile, perché c’è un mistero che grida nella realtà che nessun tipo di conoscen­za già acquisita può esaurire.

Quale dovrebbe essere lo scopo della scuola?
La scuola è efficace, è sé stessa se suscita nei giovani una simpatia profonda per il reale, se facilita lo sviluppo di un uso pieno della ragione e della libertà, del gusto per la verità e la bel­lezza delle cose, fino al loro significato ultimo. E questo non facendo discorsi aggiuntivi, ma attraverso le discipline: infatti insegnando qua­lunque materia particolare, indichiamo impli­citamente un punto di vista su tutta la realtà. Diceva don Julian Carron: «Educare alla ragio­ne vuol dire educare a un rapporto così vero con la realtà che mi impedisca di bloccare la dinamica verso la totalità». La ragione è esi­gente: non si accontenta di risposte parziali, re­clama una risposta esauriente. La domanda particolare, la curiosità particolare non nasce in modo chiaro e proporzionato se non c’è questo allenamento all’uso della propria u­manità intera.


Qual è la differenza tra lo scopo di una scuo­la statale e di una paritaria, ad esempio di u­na scuola cattolica?
Che una scuola sia statale o paritaria lo scopo dovrebbe essere lo stesso: educare la ragione e la libertà dei giovani. Una scuola cattolica, in particolare, non ha il compito introdurre surrettiziamente una certa ideologia cristiana, ma di offrire la propria ipotesi educativa alla libertà dei giovani. Casomai la sfida sarà quel­la di domandarsi: ma un’esperienza cristiana vissuta autenticamente e criticamente è in gra­do, oppure no, di facilitare l’educazione del soggetto, della persona? E su questo dobbia­mo sottoporci a verifica, non è scontato. Da fisico sperimentale sono abituato a parago­narmi con l’evidenza, con i dati che la realtà pone. Occorre essere umili di fronte al dato, essere disposti a correggersi, a trovare il modo di essere più adeguati, o meno inadeguati, al compito che abbiamo. È vero o non è vero che una certa scuola è in grado di generare un soggetto libero e consapevole, all’altezza del­le sfide a cui è chiamato? Allo stesso modo, chi ci governa dovrebbe porsi seriamente la do­manda: queste esperienze educative sono, op­pure no, un valore aggiunto per la società? E se lo sono, vogliamo soffocarle o permettere loro di esistere?

 

Avvenire, 7 marzo 2013, pag. 30

 

 

 

 

 

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